giovedì 8 novembre 2012

Grand Tour

Il Grand Tour... che cosa meravigliosa... una moda culturale che ha spinto centinaia di giovani aristocratici nord-europei a viaggiare in Italia per vedere, per apprezzare, per imparare la bellezza. Natura, arte, cultura, storia, tutto insieme, nel paese più bello del mondo, con il clima più straordinario che si possa immaginare, curativo per le povere membra infreddolite dei tedeschi o dei russi, non per niente caldamente consigliato dai medici di tutta europa. Ma i nord-europei che sono venuti (da Goethe a Montaigne, da Maupassant a Tocqueville...) non si sono limitati ad arrivare, osservare e tornarsene a casa, hanno interpretato, in base alla loro arte, il paesaggio ambientale e umano, lasciandoci un affresco di com'era l'Italia una volta.
E com'era?
Migliore. Semplicemente migliore, con tutta la sua povertà e l'ignoranza, l'Italia era un paese migliore. Non prendetemi per un retorico o un reazionario o peggio per un idealista dei tempi d'oro, no... vi prego. Affinché ciò non accada dovreste leggere Viaggio in Italia di Goethe, dovreste vedere i quadri di Corot o le centinaia di incisioni dei più svariati artisti. Ma fondamentalmente cercare di capire a cosa io mi stia riferendo nello specifico, cioé al tema particolare di questo blog, ovvero il paesaggio e la relazione che l'uomo ha con esso. Dunque: in passato l'uomo aveva un rapporto migliore con il paesaggio che lo circondava. Credetemi, non è facile per me dire una cosa del genere. Nella sua semplicità quest'affermazione è estremamente azzardata e comporta tutta una serie di presupposti antropologici, sociologici, psicologici, filosofici che non sono semplici da sostenere. Eppure io voglio sostenerli: l'uomo era migliore.
Ma in che senso?
Corot, La porta San Salvatore
Nel senso che l'attività principale di trasformazione materiale del mondo che poteva attuare, cioé la costruzione della propria abitazione, l'edificazione di edifici religiosi e laici, la percorribilità della morfologia del territorio, era più attenta e consapevole. Osservando un quadro di Corot ce ne accorgiamo: la torre San Salvatore (nella figura, in alto a destra) era ricavata nel tufo ed era costruita con il tufo, si trovava a ridosso di una rupe e aveva varie funzioni che traevano la loro ragione d'essere dalla stretta relazione con l'ambiente circostante (passaggio, avvistamento, difesa). Lo sperone di tufo non era un impedimento, era un elemento che opponeva resistenza ma da cui si poteva trarre un vantaggio. Nessun elemento naturale insomma era staccato dagli interessi dell'uomo, perché l'uomo sapeva che non poteva prescindere dagli elementi che si trovava di fronte. Sbancare completamente una rupe di tufo era inimmaginabile: troppo impegnativo e costoso. Quindi l'alternativa rimaneva interrogarsi ogni volta su come far fronte alle criticità, su come volgere a proprio vantaggio ciò che esisteva.
Ma c'è di più: nel quadro di Corot, oltre alla torre di tufo, spicca qualcos'altro: l'erba che domina, col suo colore verde chiaro, lo scenario. Quest'erba ci parla di una cosa che vorrei mettere in risalto. La vegetazione è un attore come un altro del paesaggio, ma un attore libero, che dice la sua, non incasellato. Esiste cioé nel passato, come dimostra questo quadro, ancora lo spazio libero, nel senso di non gestito. Lo spazio prettamente umano è composto dalla torre, dalla strada e dal casale in basso a sinistra, ma per il resto siamo nel regno della vegetazione, che, come il cielo, ha una sua autonomia dall'uomo e s'impone alla vista con forza, potremmo dire, quasi selvaggia. Il mondo antico italiano, a mio avviso, rachiudeva in sé questa sensazione di alterità ed estranietà, che non vuol dire per forza inimicizia. Osservando il quadro si ha l'impressione che oltre all'uomo esista anche un'altra forza che vive, con gli stessi diritti e potenzialità, il mondo. Questa forza a volte si contrappone, a volte aiuta, a volte giace immobile come un drago in lontananza. In realtà è lo stesso meccanismo di cui parlavamo prima, per cui la torre è stata costruita "insieme" alla rupe e non "a dispetto" della rupe. 
Per farmi capire meglio farò un esempio: il Colosseo. Il Colosseo ha avuto varie fasi durante la sua storia. La prima è stata quella della sua utilizzazione durante l'età romana, la seconda è stata quella del suo abbandono e la terza è quella odierna del turismo. L'unica fase in cui io considero che il Colosseo sia stato veramente morto e muto è quella attuale del turismo. Rendere un rudere oggetto di visita e studio è l'equivalente dell'imbalsamatura o dell'impagliatura. Un animale impagliato è un animale che sembra vivo ma che invece è solamente strappato alla morte, pur essendo morto, un controsenso che genera tristezza. Invece il Colosseo abbandonato, lasciato a se stesso, poteva essere riutilizzato dai pastori, poteva essere invaso dalle piante, poteva rivivere in mille modi. Certo a discapito del vecchio Colosseo, quello della prima fase, ma tanto quella fase, essendo passata, non sarebbe ritornata lo stesso. Gestire gli spazi, tutti gli spazi, significa uccidere una sana concezione dello spazio umano, perché lo spazio umano non è definito dall'uomo, ma da ciò che uomo non è. Invece oggi in Italia si cerca di gestire tutto e anche gli spazi non gestiti sono tali in base alla scelta di non gestirli e non perché si riconosca in essi la testimonianza di un mondo completamente altro che mai ci apparterrà. 
L'Italia, forse grazie alla sua povertà, aveva il pregio di aver salvaguardato agli occhi degli stranieri questo sano rapporto tra Ordine e Caos, tra Uomo e Natura, tra Cultura e Selvatichezza. Oggi non esiste più selvatichezza vera e dunque non c'è più cultura. 
Hans Thoma - Erinnerung an Orte

 

domenica 27 novembre 2011

Rivoluzione delle infrastrutture dei trasporti


Sono in buona compagnia quando affermo che il problema (per chi lo intende tale) è stato nella velocità di trasformazione del paesaggio dovuto alle infrastrutture dei nuovi trasporti.

“[…] la «tolleranza» della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere (dei consumi), è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema di informazioni. Le strade, la motorizzazione etc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro, abolendo ogni distanza materiale” (P.P. Pasolini (2006), Scritti corsari, Garzanti, Milano, p. 23). 

Orvieto
Quello che precedentemente era un sistema binario altamente armonico, formato da un centro urbano (per esempio prendiamo Orvieto, dove ancor oggi possiamo osservare, più o meno, tale sistema, vedi la figura) e la sua campagna produttiva e contadina (ben distinta dal centro storico), con l’avvento delle strade e delle automobili è diventato oggetto di una nuova urbanizzazione. Il sistema si è spezzato ed è incominciata una nuova elaborazione dello spazio. Il dilagare fuori dei centri urbani della stessa urbanizzazione infatti è dovuto alla comodità che l'automobile e il suo paradigma comporta. Prima vivevano fuori città solo coloro che producevano i beni di sussistenza (contadini) o solo coloro che potevano permettersi un’organizzazione complessa e dispendiosa della vita quotidiana (quindi nobili e aristocratici nelle ville). Con l’arrivo dell'automobile chiunque ha potuto raggiungere i centri per il mantenimento della vita quotidiana (fare la spesa etc) e la campagna è diventata una vera e propria città spalmata. La "democratizzazione" dello spazio ha fatto poi il resto. La “massa” infatti, si è impadronita lentamente del territorio e ognuno ha costruito la sua villa o la sua attività. Il territorio che ne è uscito fuori è una distesa di cemento senza soluzione di continuità e lì dove le cose non sono andate poi così male si è avuta comunque una sbavatura troppo rapida e informe dei naturali confini tra città e paesaggio circostante. Un dilagare senza regola che ha fatto molto comodo al consumo e che in quel periodo (fondamentalmente negli anni '50, '60, '70), complice la ricchezza che apportava, deve essere stato addirittura entusiasmante per chi lo metteva in pratica.

martedì 18 ottobre 2011

La Teoria del Riflesso

La teoria del riflesso ha origini antiche e di tutto rispetto. Il mondo reale, per Platone, altro non è che il riflesso di quello ideale, vero e ultraterreno. In sociologia questa visione, perdendo i suoi connotati trascendenti, caratterizza il pensiero di Marx (per fare solo un esempio su tutti) per cui tutta la produzione culturale umana è il riflesso dei meccanismi economici della società (struttura e sovrastruttura).

E riguardo al nostro argomento, ovvero la produzione urbanistica e architettonica dell'uomo nel tempo, dove e come si può applicare la teoria del riflesso?

Riporto alcune righe del libro "Anticittà" di Stefano Boeri:

"La città contemporanea riflette così - anche nelle sue parti centrali e storiche - la nuova grande energia molecolare che alimenta le società urbane: una moltitudine di soggetti e istituzioni che hanno le risorse giuridiche, economiche e politiche per cambiare piccole porzioni di spazio. E che lo fanno.
Qui sta il senso primo della transizione epocale che stiamo vivendo. le città europee non sono più la scena di un gioco tra pochi grandi soggetti (i latifondisti, le amministrazioni pubbliche, i potentati politici, le banche, le grandi famiglie industriali...) che governano ampie porzioni omogenee di territorio. Sono diventate il campo di azione di una moltitudine di attori spesso attenti solo al loro piccolo spicchio di spazio, spesso spregiudicati e a volte arroganti, disposti a tutto.
Uno dei grandi paradossi della contemporaneità è che la democratizzazione delle società urbane sta frammentando in tanti sottosistemi lo spazio collettivo delle nostre città. E così, una società abitata da una moltitudine di minoranze sta costruendosi un territorio a sua immagine e somiglianza" (Boeri S. 2011, Anticittà, Laterza, Roma-Bari, pp 82-83).

Il consumo di spazio non antropomorfizzato è quindi opera della democratizzazione della società e l'immagine di uno spazio quasi completamente esaurito dal cemento che possiamo osservare dal finestrino di un aereo è opera costante e minuta di ognuno di noi. Ognuno infatti, nel suo piccolo, fa il proprio e quello che ne risulta infine è un'immagine allo specchio sia della società frammentata di cui facciamo parte, sia del nostro stesso isolamento e individualismo.

lunedì 17 ottobre 2011

Casale di campagna a Viterbo

Essendo il tema di queste riflessioni l'allargamento dello sguardo ecco un esempio concreto di cosa può accadere ampliando la propria visuale.

In questo video osserviamo come la visione di un casale di campagna sia stata sbarrata dalle linee dure, grigie e pesanti di un cavalcavia, nello spacifico dalla Superstrada Orte - Viterbo.

L'intento di questi video non è, come potrebbe sembrare, denunciare necessariamente un degrado o uno scempio ambientale (la superstrada serve ed è molto comoda, oltre a promuovere lo sviluppo) quanto piuttosto sviluppare una riflessione su argomenti quali l'estetica, la natura sociale dell'uomo che cambia col passare del tempo e se l'urbanistica e l'architettura siano da considerarsi degli specchi in cui la società e l'uomo si riflettono.

martedì 4 ottobre 2011

Mura e tangenziali


Tornando col treno da Orte a Roma ho notato che fino al raccordo anulare domina la campagna e tutto fa pensare che siamo fuori dalla città, un po' come la stessa entrata via binari per Venezia fa percepire la laguna come ciò che delimita la città dei dogi dall'ambiente circostante. La campagna quindi, fuori dal raccordo, e poi Roma, dentro questo anello. Dunque è una strada circolare che sancisce la fine della metropoli così come in passato erano le mura ad avere questa stessa funzione. Le tangenziali o i raccordi d'altronde, un po' come capitava alle stesse mura di cinta del passato, possono essere scavallate dalla città e smettere questa funzione di delimitazione. Roma infatti ha le mura aureliane, più larghe, e quelle gianicolensi, più strette, ma per ora ha solo un raccordo. Parigi per esempio ne ha di più e sono concentrici. I palazzinari sanno, inconsciamente, che tutto lo spazio all'interno del raccordo, prima o poi, sarà loro e che la città finché si espande dentro il raccordo non sconvolge quasi nessuno. I romani d'altra parte sanno che prima o poi i palazzi arriveranno a riempire tutto lo spazio dentro il raccordo, con l'eccezione forse di qualche corridoio di verde che qualche ambientalista o assessore illuminato sarà riuscito a mantenere vivo tra il cemento.
La funzione delle strade, importantissima nella modernità, è quella di connettere le persone in macchina. La città ha come punto di riferimento la macchina e la sua possibilità di connettere gli uomini. In passato le mura circoscrivevano uno spazio di sicurezza, proteggevano dai nemici o al massimo dalle fiere e quindi il riferimento era un altro, più piccolo. Non tanto perché un animale o un uomo sono più piccoli spazialmente di una macchina, quanto perché sono meno veloci nello spostarsi. Roma moderna è a immagine e somiglianza delle caratteristiche delle automobili e si può capire solo da questo presupposto. Allo stesso tempo è però una via di mezzo, perché le alture e  l'incapacità progettuale degli urbanisti fanno si che non sia, in alcuni quartieri, nemmeno per le macchine. Né per i pedoni, che vi soffrono terribilmente perché sommersi da macchine, né per le macchine, che rimangono intrappolate tra strade troppo strette e traffico.

Estetica e non ontologia

Il discorso che voglio affrontare è un discorso prettamente estetico, investe cioè i modi di esperire le forme e di percepire il bello e l'armonico nell'uomo. A me interessa l'uomo e la relazione che instaura tra sé e ciò che lo circonda. Queste riflessioni fanno riferimento alle sensazioni di piacevolezza, familiarità ed equilibrio, non verità, unità e fine. Non si situa quindi ad un livello ontologico, piano per il quale anche il brutto e il difforme sono elementi che hanno il diritto di esistere e che non sconvolgono nessuno. Quando l'uomo ricopre di cemento tutta una valle e la riempie di ciminiere soffocanti nessun Dio nell'alto dei cieli si scandalizza e grida al misfatto, nessuna Legge dell'universo viene infranta, così come nessuna Legge naturale venne violata quando gli abitanti dell'isola di Pasqua eliminarono incoscientemente l'ultimo albero dal terreno dell'isola o come quando i virus distruggono l'organismo stesso da cui traggono sostentamento. Il piano estetico sul quale si muovono queste riflessioni ha un suo particolare baricentro, che è l'uomo e la sua fondamentale costituzione, sia psichica che biologica. Ripeto: nessuna regola ha l'universo per la quale esiste un meglio e un peggio, ma l'uomo, così come è stato fatto dall'evoluzione, è e continua a farsi, ce l'ha e con essa deve pur fare i conti. Se dunque Dio non si scandalizza più dei misfatti estetici dell'uomo, io in quanto uomo, continuo a scandalizzarmi e a indignarmi. Ma il terreno è arduo e complicato perché se l'ontologia esce dalla porta principale eccola rientrare dalla finestra. La mia tanto amata estetica infatti, certa di poterne fare a meno, se la rivede con stupore spuntare da sotto il tavolo. Non più l'ontologia della realtà, ma quella dell'uomo. Per capire infatti se esistono regole da infrangere all'interno dell'uomo bisogna definire l'uomo e le sue regole! Cara ontologia... non ci libereremo mai di te? Forse no, ma in fin dei conti che importanza ha? D'altronde non stiamo più parlando di un'ontologia delle forme assolute, ma instabili e cangianti,che è come dire che l'ontologia non esiste più nella sua accezione classica. Ora siamo di fronte ad un'ontologia con la o minuscola, sempre pronta a chianare il capo al cambiamento e alla mutevolezza delle forme. Essa d'altronde, sotto queste sembianze, sopravvive e sopravviverà forse per sempre, perché senza forme tout court è impossibile pensare.

La difficoltà e l'ambiguità di questo argomento

In questo momento sono seduto lì dove Pier Paolo Pasolini è stato sicuramente seduto, ovvero su di una poltrona della sua casa nel castello di Chia. Davanti a me ho le ampie vetrate e la vista sulla forra e la vegetazione rigogliosa. Attraverso i vetri posso anche vedere l'aggiunta che Pasolini fece alla struttura medievale, cioè una costruzione a ferro di cavallo adiacente alle vecchie mura del versante nord del castello. Il posto è sicuramente incantevole ma subito mi viene da pensare che gli interventi moderni potevano certamente essere svolti in maniera differente, più integrati nell'ambiente e con lo stile del castello Orsini. Non sto dicendo che siano brutti, ma solo che non sono il massimo. Il secondo pensiero che viene spontaneo è che se proprio Pasolini, così attento alle dinamiche estetiche, dell'ambiente e della tradizione, ha dato il permesso a questo progetto che non è un granché è normale poi che da altre parti d'Italia e con una sensibilità decisamente minore i danni siano stati più gravi. Il fatto è che quest'argomento, ovvero l'uomo, il suo ambiente, l'estetica dei luoghi e l'antropologia che vi sta dietro, è un argomento spinoso e soggettivo. In quest'argomento convivono tanti fattori che rendono complesso trovare una strada sicura di ragionamento che non sia viziata da ideologie, stereotipi e mode di pensiero. L'uomo e lo spazio del suo abitare, la manifestazione della sua anima ma anche della sua società, nonché delle possibilità oggettive di realizzazione di una cosa.